Quattro chiacchiere con Andrea Camic su "Arturo e Nadir"
Ti sei divertito a
illustrare questa storia?
Molto. Per divertimento, in realtà intendo più una
partecipazione, un coinvolgimento emotivo, che m’ha permesso di trovare e poi
realizzare parecchie soluzioni che non avevo mai finora avuto modo di
sperimentare.
Cosa ti ha
appassionato di più?
Diciamo il ritmo della storia, e la sua varietà di
situazioni. Nel senso che, si parte da una scena abbastanza statica e
riflessiva, in un contesto tutto sommato abbastanza usuale e, alla fine, dopo
un viaggio in cui ne succedono di tutti i colori, ci si ritrova in un’altra
terra, in un’altra parte del mondo. La sensazione di “viaggiare” con la
fantasia, a ritmi sostenuti e ritrovarsi in uno scenario totalmente diverso.
Di che cosa sei più
soddisfatto?
Mi riallaccio a quanto appena detto. La soddisfazione che ho
avuto lavorando a questo racconto scaturisce dal fatto di avere effettivamente
viaggiato, a modo mio: un viaggio emotivo, naturalmente, poiché illustrare le
varie fasi della storia, è stato come ricercarne i colori, i sapori e le
sensazioni che avrei provato in quell’istante, in quel luogo. C’è un’altra cosa
che mi lusinga: il fatto di aver illustrato una storia pensando di farla capire
ad un pubblico di giovanissimi. Mi dà l’idea come di un passaggio del testimone
in una staffetta.
C'è qualcosa in
questo lavoro che ti ha messo alla prova come illustratore?
J.
No, non particolarmente. Molto probabilmente sono stato favorito da una buona
disposizione d’animo, che è la cosa che, quando manca, mi fa sudare
maggiormente.
Come nascono le tue
immagini?
Le immagini, nella testa, mi nascono nei modi e momenti più
disparati. Sia quando le cerco, che quando meno le aspetto. In entrambi i casi
però c’è bisogno di lavorarci su, poiché molto raramente è “buona la prima”,
come si dice. Mentre mi appare in testa una soluzione grafica, può essere che
un suono, un rumore, una persona che dice una frase, mi indirizzi in un altro
senso. Insomma, è difficile da raccontare.
Che tecnica usi nel
tuo lavoro?
Prima di tutto visualizzo in forma di schizzi, più o meno
veloci, l’immagine che ho in testa, sulla carta e a matita.Cerco di farne il
più possibile, in modo da lasciare fuori il minor numero possibile di spunti
che ho. Sul foglio di carta riesco a concentrarmi meglio, piuttosto che davanti
allo schermo del pc. Successivamente, sulla carta da lucido, c’è una fase in
cui “ripulisco” le matite (tolgo tutti i segni e scarabocchi in eccesso), e
definisco gli schizzi, che diventano disegni. Fino a qualche anno fa c’era un
altro passaggio, in cui riportavo i disegni dal lucido su un bel foglio di
carta da disegno F4, in bella copia, che poi ripassavo ad inchiostro, col
pennello o col pennarello. Procedimento
questo, che ormai ho smesso di fare, per questioni di tempo e anche di vista J Per cui, passo allo
scanner direttamente i disegni su lucido, e da qui parte il lavoro al pc, in cui
aggiusto le proporzioni, le dimensioni, il segno e infine metto il colore.
Quali sono i tuoi
riferimenti professionali?
L’interesse verso il disegno, mi è venuto naturalmente fin
da piccolo. Sintetizzando, direi che la colpa J
è stata dei film a cartoni animati della
Disney, dei giornalini per bambini
che c’erano all’epoca (Braccio Di Ferro, Soldino, Tiramolla, Felix,Geppo, c’è
qualcuno che se li ricorda?), per cui per me disegnare voleva dire disegnare a
fumetti.
In seguito,scoprii e mi appassionai al fantastico Jacovitti.
Poi Magnus (Alan Ford, Kriminal, I
Briganti, La Compagnia della Forca, ecc), grazie al quale ho cominciato a
pensare al fumetto come parte integrante della mia esistenza, anche se ancora
ero un po’ troppo giovane.
La spinta decisiva l’ho avuta infatuandomi delle storie e
delle modalità espressive di Andrea
Pazienza: qui è stata la prima volta che ho pensato, si, voglio fare questo
mestiere.
Contemporaneamente (tra gli anni ‘80 e i ’90 del secolo
scorso) andavo conoscendo tanti autori e disegnatoridi quel fumetto che una
volta si chiamava “d’autore”, per distinguerlo da un fumetto seriale, quello cioè
che nelle edicole usciva con periodicità cadenzata. Autori sia italiani che
stranieri. Francesi soprattutto, e credo che ognuno di essi ha mi abbia
lasciato qualcosa. Per cui, quando ho cominciato a fare fumetti, perché venissero stampati,
i miei riferimenti artistico-professionali erano tutti i qui sopra elencati.Ora
anche se sono passati gli anni, e le conoscenza di forme e stili è aumentata, l’imprinting è sempre quello iniziale, per
cui se ho ancora dei punti ai quali riferirmi, dei modelli a cui ispirarmi,
credo siano sempre gli stessi.
Il tuo parere sui
temi di questa storia: amicizia, differenza, accoglienza, viaggio.
Li trovo legati tra di loro. Essere amico di qualcuno,
significa accogliere nei propri pensieri e sentimenti, le sue ragioni, paure,
speranze, debolezze, allegrie e tristezze, meriti e demeriti; essere coscienti
del fatto che accogliere un’altra persona, è un arricchimento per noi. E il viaggio
in sé, presuppone un essere disposti a trovarsi di fronte il “diverso”, anzi, spesso
si viaggia per conoscere situazioni e persone differenti. E per accoglierle
dentro di sé,chiamarle a far parte della nostra struttura cognitiva ed emotiva.
E crescere.
Per questo viaggio e
per quelli che ti hanno portato fino a qui, senti di dover ringraziare qualcuno?
Però, sappiamo benissimo che nella vita, da soli non si arriva da
nessuna parte, e succede di fare degli incontri più o meno decisivi che
influenzano notevolmente il nostro incedere artistico.
Per cui, come minimo devo citare alcune persone senza le quali non
sarei quello che sono adesso.
Roberto Baldazzini, con cui ho avuto la fortuna di stare a contatto per qualche anno, e spalleggiare artisticamente.
Giuseppe Manunta, disegnautore come si definisce lui
stesso, compagno di viaggio sia professionale che in senso stretto.
Paolo Pero, grafico multitasking, insostituibile, senza il quale
probabilmente sarei ancora a scarabocchiare sui fogli di carta.
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